Dalla scoperta del primo esopianeta, orbitante intorno a una stella di sequenza principale, come il Sole, sono passati 25 anni. Durante questo lasso di tempo sono stati elaborati diversi metodi per poterli rilevare e catalogare. Al momento della pubblicazione dell’articolo sono stati scoperti oltre 4700 pianeti extrasolari appartenenti a più di 3450 sistemi planetari diversi. Individuarli risulta molto complicato per il fatto che la luce riflessa da un pianeta è dell’ordine dei milionesimi rispetto alla luminosità della stella di appartenenza che col suo bagliore impedisce di osservarli direttamente. Perciò i telescopi, con le tecnologie attuali, possono rilevare la presenza di esopianeti solo in maniera indiretta. I metodi finora usati per la loro individuazione sono di vari tipi.

 

ASTROMETRIA E VELOCITÀ RADIALI

Il primo metodo preso in esame consiste nella misurazione precisa della posizione di una stella nel cielo e osservando in che modo essa cambia in un certo intervallo di tempo. Nel caso in cui la stella abbia un pianeta, allora l’influenza gravitazionale dello stesso causerà un movimento della stella attorno a un comune centro di massa (baricentro). Il moto della stella si può individuare tramite lEffetto Doppler,  un fenomeno fisico che si verifica quando si osserva un cambiamento della frequenza di un’onda luminosa emessa da una stella perché in moto rispetto all’osservatore. L’Effetto Doppler può essere sperimentato quotidianamente ascoltando la sirena di un’ambulanza quando si avvicina e poi si allontana.

 

VARIAZIONI DEGLI INTERVALLI DI EMISSIONI DI UNA PULSAR

Una Pulsar è una stella di Neutroni (il resto del nucleo di una stella dopo che questa è esplosa in una supernova di tipo II) che ruota molto velocemente emettendo segnali radio a intervalli estremamente regolari. Se si osservano delle variazioni cicliche nella sua pulsazione, queste, possono essere spiegate dall’influenza gravitazionale di un pianeta orbitante intorno alla stella.

METODO DEL TRANSITO E VARIAZIONE DEL TEMPO DI TRANSITO

Questo è il metodo che, finora in assoluto, ha permesso di scoprire più esopianeti. Il metodo del transito consiste nella rilevazione della diminuzione di luminosità di una stella quando un pianeta gli transita di fronte. In alcuni casi può accadere che vi siano delle variazioni nei tempi di un transito qualora l’esopianeta sia in risonanza orbitale con un altro pianeta ancora sconosciuto. Infatti, in sistemi planetari multipli, l’attrazione gravitazionale reciproca dei pianeti fa sì che un pianeta acceleri e un altro pianeta deceleri variandone il periodo orbitale e quindi il tempo di transito.

DISCHI CURCUMSTELLARI E PROTOPLANETARI

Molte stelle sono circondate da nubi di polveri ed esse possono essere individuate poiché in grado di assorbire la luce stellare e riemetterla sotto forma di radiazione infrarossa. Analizzandole attentamente è possibile, in alcuni casi, individuare la presenza di pianeti e protopianeti.

MICROLENTE GRAVITAZIONALE

Quando Albert Einstein pubblicò nel 1916 la Teoria della Relatività Generale, questa fu colta con scetticismo dalla comunità scientifica dell’epoca. La prima conferma sperimentale derivò dalle misurazioni che Arthur Eddington effettuò a São Tomé e Príncipe dove, il 29 maggio 1919, si manifestò un’eclissi totale di Sole. Quando egli esaminò le fotografie scattate nel corso dell’evento, si accorse che alcune stelle che dovevano risultare invisibili, poiché dietro al disco solare, tuttavia lo erano. In particolare, Eddington annotò che la deviazione della loro posizione era in accordo con la teoria di Einstein.

La Relatività Generale ha rivoluzionato il modo di concepire la gravità. Essa non viene più intesa come una forza agente su corpi dotati di massa, ma come una legge fisica legata alla curvatura del tessuto spazio-temporale. I fenomeni fisici descritti e spiegabili da questa teoria sono molteplici, ma per i fini divulgatori dell’articolo l’unico che si prenderà in considerazione è l’effetto di Lente Gravitazionale (quello annotato da Eddington). Una tecnica per la rilevazione degli esopianeti basata su questa teoria è l’effetto della microlente gravitazionale. Ovvero, il modo in cui la luce di una stella viene deviata da una seconda stella permette di capire se la deviazione ha subito anche l’influenza del campo gravitazionale di un possibile pianeta orbitante attorno alla seconda stella.

LENTE SOLARE GRAVITAZIONALE (SGL)

Tutti i metodi appena elencati, come già accennato, permettono di scoprire un esopianeta solo tramite osservazioni indirette. Ma se si volesse osservarli direttamente? La risoluzione di un telescopio è determinata dal cosiddetto limite di diffrazione che è tanto più piccolo quanto più grande è il diametro del telescopio. Osservare direttamente un esopianeta simile alla Terra posto a cento anni luce di distanza è come distinguere dal nostro pianeta un sassolino grande mezzo centimetro sulla superficie lunare (distanza media 384.000 km). Si è calcolato che un telescopio, con un limite di diffrazione piccolo abbastanza da poter rendere possibile ciò, dovrebbe avere un diametro di almeno 80-90 km. Un’impresa infattibile sia dal punto di vista economico e sia dal punto di vista tecnologico. Questo problema, tuttavia, è risolvibile sfruttando l’effetto di lente gravitazionale accennato poc’anzi. Essendo il Sole l’oggetto più massiccio del Sistema Solare, è anche quello in grado di deviare la luce in maniera più evidente. Infatti, i raggi di luce provenienti da una stella lontana possono essere deviati dalla gravità solare fino a convergere a partire da una distanza di circa 82 miliardi di chilometri (548UA) da noi.

Mappa concettuale del sistema solare, al centro dell’immagine vi è l’area focale della SGL.

Cioè, quasi cinquecentocinquanta volte la distanza che separa la Terra dalla nostra stella. Per rendersi conto di quanto essa sia elevata, basti pensare che la sonda Voyager 1 (il manufatto umano più lontano mai lanciato), in oltre quarant’anni, non ha percorso nemmeno un terzo di questa distanza. Il fenomeno fisico appena descritto permette di considerare il Sole come un enorme lente d’ingrandimento gravitazionale con un potere risolutivo tale da fare impallidire qualsiasi telescopio mai costruito. Un fascio di luce passante attraverso una lente del genere viene amplificata oltre 100 miliardi di volte (ben 27 magnitudini stellari), mentre la risoluzione angolare giungerebbe a un cento-bilionesimo di grado (1 bilione = 1000 miliardi). Per rendere chiaro questo concetto basti pensare che un telescopio con tale risoluzione permetterebbe di scorgere chiaramente un granello di regolite posto sulla superficie lunare.

La possibilità di sfruttare il Sole come una gigantesca lente ha interessato anche la NASA la cui proposta ha già raggiunto la fase III nel programma NIAC (NASA Institute for Advanced Concepts). Le ricerche svolte da questo programma servono per delineare le missioni spaziali dei prossimi 10-40 anni. L’idea concettuale sarebbe quella di spedire una sonda fornita di un telescopio da un metro di diametro a 548 UA dal Sole. Esso sarebbe anche dotato di un coronografo per schermare il bagliore della nostra stella ed eliminare, così, tutta la luce parassita.

Tuttavia, per raggiungere una tale distanza in tempi ragionevoli, la propulsione non può essere chimica come quella usata per le sonde Voyager. In questo caso occorrerebbero lanciatori molto grandi che farebbero lievitare enormemente i costi della missione. Un sistema molto vantaggioso, tuttora in fase di sperimentazione, sarebbe la propulsione mediante l’uso di vele solari. Queste, sfruttando la pressione di radiazione (generata dall’impatto sulla vela dei fotoni emessi dal Sole), sarebbero in grado di accelerare una sonda fino a una velocità di circa 150 km/s. Con tale sistema, il telescopio giungerebbe a destinazione in meno di 25 anni. Inoltre, lo scenario delle vele solari risulta proficuo in quanto queste possono essere usate anche come antenne ad alto guadagno per facilitare le comunicazioni.

Immagine artistica di una vela solare.

Come apparirebbe un esopianeta osservandolo con una SGL?

La risposta non è intuitiva come si pensa. A differenza delle lenti a cui noi siamo abituati, una lente gravitazionale non focheggia i raggi di luce in un unico punto. Bensì, li fa interferire fra di loro in un raggio stretto posto sulla linea focale che, nel caso del Sole, per un esopianeta distante cento anni luce risulta ampia solo 1.3 km. Perciò, un’ipotetica sonda (telescopio da un metro) posta in questa zona vedrebbe un esopianeta come un anello concentrico al Sole che prende il nome di Anello di Einstein.

Come apparirebbe un esopianeta attraverso una SGL (Anello di Einstein).

Più ci si allontana dal sole più l’anello si allontanerà prospetticamente in modo che esso non possa essere disturbato neanche dalla luminosità irradiata dalla corona solare. Tuttavia, riprendere un esopianeta attraverso una SGL non è un’impresa semplice. Prima di tutto l’allineamento tra sonda, Sole ed esopianeta deve essere perfetto, condizione non verificabile per un lungo periodo di tempo per vari motivi:

  1. L’esopianeta orbita intorno alla sua stella, quindi non sarà sempre possibile osservarlo.
  2. Il Sole non è fisso ma si muove attorno al baricentro del Sistema Solare.
  3. La sonda dovrà effettuare continui aggiustamenti di rotta in quanto si troverà ad operare in uno spazio molto ristretto (massimo 750 metri di distanza dalla linea focale).

Infatti, i ricercatori della NASA hanno messo al vaglio l’ipotesi di lanciare una flotta di CubeSat in grado di creare un telescopio virtuale che faciliterebbe le osservazioni, oltre a diminuire la massa di lancio.

Immagine artistica della missione (CubeSat).

Poi, un altro grosso limite è segnato dalla bassissima luminosità dell’esopianeta, difatti, per ottenere un segnale sufficiente per risolverlo potrebbe occorrere addirittura un anno. La qualità delle osservazioni dipenderà anche dal coronografo, che dovrà essere realizzato in un modo tale da trasmettere solo l’anello di Einstein, isolandolo da tutto il resto del campo inquadrato.

Indice di trasmissione del coronografo: trasmissione nulla (blu), trasmissione massima (rosso).

Una volta raccolto il segnale utile si dovrà effettuare una ricostruzione dell’immagine rotazionale. Infatti, per poter definire l’esopianeta, bisognerà “congelare” sia il moto di rotazione intorno al suo asse, sia il moto delle nubi. Andrà inoltre effettuato un processo di deconvoluzione dell’immagine, un processo usato in elaborazione di immagini digitali. Questo metodo viene applicato per mezzo di un algoritmo in grado di ricostruire su base statistica gli elementi mancanti, togliere i fattori di disturbo e rendere possibile la creazione di un’immagine di qualità maggiore.

Immagine simulata della Terra, osservata attraverso una SGL, ottenuta con processo di deconvoluzione.

Infine, si dovrà trasformare l’immagine del pianeta convertendolo da una forma ad anello a quella di un geoide. Una volta superate tutte le sfide, è stato calcolato che un telescopio di un metro, posto a 548UA dal Sole, riuscirebbe a ottenere l’immagine di un pianeta simile alla Terra, distante cento anni luce, con una risoluzione di circa 25 km per pixel.

Immagine simulata della Terra, osservata con una SGL, se posta alla distanza di Proxima Centauri (4.3 anni luce).

Una tale definizione permetterebbe di studiare, con grande dettaglio, la morfologia di un esopianeta (continenti, oceani, ecc.) e se, nel caso di un pianeta posto in zona abitabile, confermare la presenza grandi quantità di acqua allo stato liquido sulla sua superficie. Sarebbe perfino possibile, tramite indagini spettroscopiche, comprendere la struttura e la composizione chimica della sua atmosfera e, cosa più importante, individuare la presenza di bio-tracce che permetterebbero di confermare la presenza di forme di vita.

È chiaro quindi che una missione del genere permetterà all’uomo di poter dare risposta ad una delle più grandi domande che egli si sia mai posto nel corso della sua esistenza.

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